Incontriamo il male di vivere

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“Disperazione è il risultato di ogni singolo tentativo di comprendere e giustificare la vita umana.” Il filosofo Herman Hesse svela una verità: chiusi nel dolore come i poeti maledetti del Novecento, gli uomini continuano da secoli a disperare. Il male di vivere che attanaglia l’uomo corrisponde, infatti, alla consapevolezza di essere condannati sulla Terra, pur appartenendo, in quanto uomini, ad un mondo superiore.

Tuttavia, la tendenza ad imprigionare il malessere dell’umanità in etichette, come il “pessimismo” o la “maledizione”, conduce l’individuo a distaccarsi dalla sua reale condizione e a domandarsi se il “male di vivere” sia un’esperienza particolare o universale.

“Anche questa notte passerà/ questa solitudine in giro/ titubante ombra dei fili tranviari”: nei versi de “L’Allegria”,Ungaretti ci offre una testimonianza dell’esclusività del malessere, vissuto nella sua vicenda biografica, quindi da pochi, coloro che, lasciati soli, considerati come un’ombra incerta della vita, sono poeti e artisti. Il male di vivere si confonde nella notte, così come ogni uomo nasconde la propria sofferenza all’altro: ciascun individuo sfrutta l’oscurità, persuadendosi di essere isolato e lontano dalle “teste dei brumisti”, di disperarsi mentre gli altri dormono, senza accorgersi che la notte è una comunanza di sonni e sogni.

Di conseguenza, incastrato in un’incomunicabilità paralizzante, l’uomo prosegue nel vicolo cieco del dolore svelato, di cui non si riesce a tracciare un percorso ben preciso, ma solo a ricostruire alcuni sprazzi: l’uomo può “incontrare” il male di vivere che si presenta a singhiozzo,come ci conferma Montale, nel “rivo strozzato che gorgoglia”, nell’ “incartocciarsi della foglia riarsa”, nel “cavallo stramazzato”. In tal modo, diventa impossibile per l’uomo scoprire che, in realtà, il suo dolore è universale ed “eterno”, come dimostra la naturale intuizione di Saba in “La Capra”. “Quell’uguale belato era fraterno al mio dolore” e in esso “sentivo querelarsi ogni altro male, ogni altra vita”: così si risolve la ricerca di Saba che, riuscendo a specchiare, per la prima volta, la propria sofferenza in un essere disposto a mostrarla, raccoglie i diversi sintomi del male di vivere in un’unica “malattia dei secoli”, che, più o meno intensamente, ammorba il mondo.

urlo-munch.jpgDalle timide convinzioni di una particolarità della sofferenza, il male di vivere dell’artista esplode nella confusione della realtà, dipinta vorticosamente dall’ “Urlo” di Munch. Eppure, lungo la passerella verso l’orizzonte della tela, le altre figure restano indifferenti. Tuttavia, la chiave di lettura è nella disperazione stessa: la maschera dell’angoscia è volutamente anonima e, quindi, universalmente valida. Di conseguenza, quasi in un’analisi hegeliana, l’uomo si eleva a totalità e il suo male di vivere si mostra nel suo contagio della totalità degli uomini.

Per questo, potremmo definire tale sofferenza come una proprietà intrinseca dell’individuo, costretto a subire l’indissolubile dicotomia che avvolge il suo corpo e la sua anima. Ecco, allora, che la differenza da esaminare non sta più tra dolore universale e particolare, bensì nelle diverse reazioni all’universalità del male di vivere. Infatti, non tutti riescono a oggettivare la propria sofferenza, a osservare, come dice Quasimodo, “la gelida messaggera della notte”, un “piacevole dolore”.

A questa condizione è  comodo addormentarsi, ripiegarsi sul tumore non svelato, accrescendone però la pericolosità. L’unico, grave effetto sortito è la costruzione di un “popolo silente di infami ragni” che “tende le sue reti in fondo ai cervelli nostri”, come denuncia tristemente Baudelaire nel suo “Spleen”. È in tale prodigio di “divina Indifferenza”(Montale) che i pochi, chiamati artisti, tornano ad essere soli, abbandonati nella loro confinata consapevolezza e sfinita speranza.

Così la sofferenza sfocia in una vera e propria malattia degenerante, in cui è inutile qualsiasi reazione da parte dell’infetto; “e lunghi funerali lentamente sfilano senza tamburi nè musica dentro l’anima: vinta, la Speranza piange e l’atroce Angoscia sul mio cranio pianta, dèspota, il suo vessillo nero”. Con questi versi, Baudelaire rappresenta la sconfitta, causata dall’assenza di un’adeguata risposta immunitaria, innescata internamente dall’uomo stesso, questa volta, come totalità (hegeliana).

Probabilmente (ma è difficile da accettare per chi ha sempre lottato) l’unica soluzione per l’inappagabilità di sè che reca dolore all’uomo è quella proposta da Shopenhauer: la Noia come liberazione dalla Volontà, dal desiderio e dunque da ogni possibilità di delusione e dolore.

Poesia visiva

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L’arte è fugace, estemporanea, eppure mai frivola.Appariscente, estetica, ma mai superficiale. Fragile, mutabile, ma sempre intramontabile.

La bellezza può essere armonia di proporzioni o imperfezione sproporzionata, ma resta sempre poesia.

La bellezza si consumerebbe in un secondo estatico, se l’arte non avesse trovato il modo di eternarla. La bellezza sarebbe piegata dalla sua congenita fragilità se l’arte non avesse trovato il modo di proteggerla.

L’arte ha immortalato la bellezza, così trascendentale, così astratta, nella concretezza tangibile della materia. Così la bellezza amalgamandosi alla materia con un dolce contagio, ha dato vita a tele e blocchi di marmo, elevando la loro concretezza a suprema poesia visiva.

L’arte ha protetto la bellezza, così fuggente e fragile, nei recipienti rappresentanti dalla pittura, dalla scultura e dall’architettura.

Tre diversi linguaggi, tre diverse prospettive, tre diverse modalità per intendere la stessa cosa: la molteplice ma sempre unica bellezza.

La sabbia del Tempo

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Come scorrea la calda sabbia lieve
Per entro il cavo della mano in ozio,
Il cor sentì che il giorno era più breve.

E un’ansia repentina il cor m’assalse
Per l’appressar dell’umido equinozio
Che offusca l’oro delle piagge salse.

Alla sabbia del Tempo urna la mano
Era, clessidra il cor mio palpitante,
L’ombra crescente d’ogni stelo vano
Quasi ombra d’ago in tacito quadrante.

(La sabbia del Tempo, Gabriele D’Annunzio)

Così come nel sonetto di Gabriele D’Annunzio, la sabbia scorre tra le mani degli uomini, antichi e moderni, per lasciar correre il tempo, mentre le nostre dita “in ozio” non riescono a fermarla. Costruzioni d’infanzia potranno renderci immortali.

Sulle spiagge dei nostri divertimenti, si afferma il destino irrefrenabile: quattro bambini palestinesi hanno tentato, a Gaza, di arrestare la sua corsa, ma sono restati incastrati nel loro stesso coraggio. Uccisi non solo dall’ “umido equinozio che offusca l’oro delle piagge salse”. Il 16 luglio, a Gaza, infatti, l’uomo si è impossessato della sabbia e del suo potere fatale per imprimere in altri uomini il dolore a cui egli stesso non potrà fuggire. In un attimo, le spiagge di tutto il mondo non vennero guardate più come fonte di bellezza e allegria, ma come l’ennesimo luogo in cui morire.

Tuttavia, vi sono uomini che, come i bambini palestinesi, desiderano sfidare la forza del destino, la forza di gravità che trascina in basso la sabbia nella clessidra, per apportare miglioramenti nella vita dell’intera umanità, dimenticando guerre di egoismo. La sabbia, la nemica, diventa in questo modo un’alleata, con la quale stringere accordi salvifici. Pochi sono in grado di trattare con la sabbia; ci erano riusciti i Romani. Nel loro Impero, la sabbia iniziò ad essere usata nell’opus, la tecnica di costruzione tramandata da Vitruvio. Ecco che l’alleata si trasforma in sviluppo non solamente architettonico, bensì sociale e umano. I Romani riuscirono ad arrestare lo scorrere della sabbia; la testimonianza è offerta dalle loro abitazioni e dai loro monumenti ancora in  vita.                                                                                                                                                          “Mentre i Greci ebbero la reputazione di scegliere buoni siti per le loro città, dando priorità alle bellezze dei luoghi, alle difese naturali…i Romani ebbero lungimiranza nelle questioni che i Greci trascurarono, come la costruzione di strade pavimentate e acquedotti e cloache che potessero trascinare via la sporcizia della città nel Tevere.” Il geografo greco Strabone adopera un termine preciso per l’azione umanitaria dei Romani: lungimiranza. Essere visionari, credere in qualcosa, agire in nome di quel qualcosa per il bene di tutti è forse un significato più esteso della lungimiranza ed è la ricetta precisa seguita da chi, come i Romani, come i quattro bambini palestinesi, tenta di imprigionare per sempre la sabbia nella propria mano e in quella del mondo intero.

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Sulla scia degli antichi, l’alleata-nemica viene oggi non solo intrappolata in opere architettoniche, ma plasmata e rivitalizzata nell’arte. Grazie a donne come Susanne Ruseler, la sabbia arida si riempie di fiori e immagini fantastiche. Grazie a uomini come Calvin Seibert, i castelli sulla spiaggia assumono forme impensabili e indelebili dall’acqua del mare. “L’ombra crescente di ogni stelo” non è più vana, quindi, l’ago del tempo continuerà a scorrere, ma non per chi oserà combatterla.

_64469349_53a57d8a-f424-4e91-8229-1a1ab2aca0afCalvin Seibert

Partiamo per essere astri al suolo

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“Partiamo questa notte”, quando tutti dormono nel proprio incubo e nessuno vaga per le strade e osserva l’orizzonte. Così i poeti ci invitano nel loro viaggio, immersi nel sogno, nel volo verso una meta infinita.

Il buio è perfetto per fuggire, è la consistenza ideale per esplorare cose che nessuno vede, nascosti nel proprio habitat naturale. Pochi sono disposti, come i poeti, a separarsi dalla realtà, dalle abitudini per saltare sulla nave straniera. Pochi affrontano persino un mare in tempesta per raggiungere la propria, vera casa.

D’altronde non si tratta di facile impresa: per viaggiare occorre seguire la propria strada, tralasciando percorsi e direzioni altrui. Il viandante deve camminare da solo, solo con sé stesso, per svelare i misteri del proprio spirito. È lo spirito che fugge dai “morbosi miasmi”, dall’epidemia che infuria la terra mortale, per purificarsi nell’aria infinita. Giungerà così alle stelle solo chi saprà volare, saprà pensare e comunicare con la natura, senza parole.

Ma una strana fatalità sembra costringere gli uomini a tornare nei luoghi dove il destino, avendo maggiore potere, ha segnato la vita di ognuno, soprattutto con sofferenza e dolore. Il ritorno alla realtà è dunque inevitabile, quasi necessario ai vagabondi, ai poeti, che soffrono se la tempesta nel mare impedisce loro di avvicinarsi alle “sacre sponde”. Non è la realtà che, prima rendeva loro impossibile immaginare, ad essere desiderata, bensì la propria memoria. Lo spirito ha vagato ed ora è necessario ricongiungersi con il corpo.
Chi non può farlo è condannato all’esilio, ma ha a disposizione un’unica consolazione: il canto poetico. La poesia aiuterà i viaggiatori a continuare ad essere “astri al suolo”.

PARTIAMO QUESTA NOTTE
Noi partiamo questa notte
Silenziosi riempiamo la strada immobile, deserta
Una colonna grigia, confusa
E gli spiriti trasalgono per questo battere smorzato
Lungo la strada senza luna;
gli ombrosi cantieri dove i nostri passi echeggiano
passando dalla notte al giorno
e così attardiamoci sui ponti senza vento
vedere sulla riva spettrale
ombre di mille giorni, poveri relitti striati di grigio
oh allora deploreremo
quegli anni inutili!
Guarda come è bianco il mare!
Le nuvole si sono fatte pioggia, il cielo fiamme
Su autostrade vuote, dove il pavimento di ghiaia riluce
Il ribollire delle onde a poppa
Diviene un voluminoso notturno
…Partiamo questa notte. ( Francis Scott Fitzgerald)

PAROLA D’ORDINE
Lasciate passare chi va per la sua strada.
Lasciate passare
Chi va pieno di notte e chiar di luna
Lasciate passare e non gli dite nulla.
Lasciatelo: va solo
A bere acqua di Sogno a qualche fonte;
a coglier bianchi gigli
in un giardino che egli sa, di fronte.
Viene da Terra di tutti, ove ha casa
E dove torna spuntato il mattino.
Ora lasciatelo passare:
va pien di notte e di solitudine.
Diventerà poi
Un astro al suolo. (Miguel Torga)

C. Baudelaire-Da “Les fleurs du mal”

Al di là degli stagni, delle valli e dei monti,
al di là dei boschi, delle nuvole e dei mari,
al di là del sole, al di là dell’aria,
al di là dei confini delle stellate sfere,

Tu, mio spirito, ti muovi con agilità
e, come buon nuotatore che gode tra le onde,
allegro solchi la profonda immensità
con indocile e maschia voluttà.

Fuggi lontano dai morbosi miasmi,
voli a purificarti nell’aria più alta,
e bevi, come un puro liquido divino,
il fuoco chiaro che colma spazi limpidi.

Le spalle alla noia e ai vasti affanni
che opprimono col loro peso la nebbiosa vita,
felice chi con ali vigorose
si eleva verso campi sereni e luminosi;

Chi lancia i pensieri come allodole
in libero volo verso il cielo del mattino,
– chi si libra sulla vita e comprende senza sforzo
il linguaggio dei fiori e delle cose mute!

A ZACINTO

Né più mai toccherò le sacre sponde
ove il mio corpo fanciulletto giacque,
Zacinto mia, che te specchi nell’onde
del greco mar da cui vergine nacque

Venere, e fea quelle isole feconde
col suo primo sorriso, onde non tacque
le tue limpide nubi e le tue fronde
l’inclito verso di colui che l’acque

cantò fatali, ed il diverso esiglio
per cui bello di fama e di sventura
baciò la sua petrosa Itaca Ulisse.

Tu non altro che il canto avrai del figlio,
o materna mia terra; a noi prescrisse
il fato illacrimata sepoltura. (Foscolo)